Le cannucce di carta sono davvero ecologiche?

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Uno studio statunitense del 2021 l’aveva già rivelato, ma ora sappiamo che anche le cannucce “ecologiche” prodotte in Europa contengono PFAS: lo conferma una ricerca pubblicata su Food Additives and Contaminants, che ha scoperto che il 90% delle cannucce di carta contengono le cosiddette “sostanze chimiche eterne” (forever chemicals in inglese), più conosciute come PFAS (sostanze perfluoroalchiliche).

Vade retro cannucce di carta. I ricercatori hanno testato 39 diverse marche di cannucce fatte di carta, bambù, vetro, acciaio inox e plastica, e hanno analizzato la presenza di 29 diversi tipi di PFAS. La maggior parte (il 69%) conteneva PFAS, di 18 tipi diversi in totale. Sorprendentemente, le cannucce di carta erano quelle nelle quali si trovavano più di frequente (in nove casi su dieci): il PFAS più comune era il PFOA (acido perfluoroottanoico), una sostanza connessa ad alti livelli di colesterolo, risposta immunitaria ridotta, problemi alla tiroide e cancro ai testicoli e al fegato. L’uso del PFOA è proibito in tutto il mondo dal 2020.

Altre sostanze chimiche eterne ritrovate nelle cannucce sono l’acido trifluoroacetico (TFA) e l’acido trifluorometansolfonico (TFMS), entrambe altamente solubili in acqua e dunque facilmente ritrovabili nelle bibite che sorseggiamo con la cannuccia.

Meglio l’acciaio. Le cannucce di bambù sono leggermente meno contaminate di quelle di carta, con otto marchi su dieci contaminati da PFAS; meglio quelle di plastica (contaminate nel 75% dei casi) e quelle di vetro (PFAS presenti nel 40% dei casi). Le PFAS non sono invece state ritrovate in nessuna delle cannucce di acciaio inox.

In accumulo. In generale, le concentrazioni di PFAS ritrovate nelle cannucce erano basse, e dunque non particolarmente pericolose per la salute umana di per sé: tuttavia bisogna considerare che queste sostanze si accumulano nell’organismo, perché vengono assorbite ma non espulse: «Piccole quantità di PFAS, sebbene non siano dannose prese singolarmente, possono aggiungersi alle sostanze chimiche già presenti nel corpo», spiega Thimo Groffen, uno degli autori.

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