Al supermercato spesa pagata da una sconosciuta, il mio sconcerto

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LA LETTERA . Un nostro lettore ci ha scritto per rendere noto un bellissimo e spontaneo gesto di solidarietà ricevuto inaspettatamente alla cassa.


I miracoli accadono. Non quelli soprannaturali, a cui non credo, ma poi chissà…

Accadono i miracoli dell’umano, noi fragili e mortali – brotos, thnetos, per i Greci – spaventate creature di un solo giorno, ma solo «noi, i più fuggevoli», per Rilke, capaci di trascenderci, oltre il reale, per immaginare ciò che non c’è.

A me, al supermercato, è accaduto un miracolo.

La premessa

Per capirne la portata, bisogna inquadrare il contesto sociale dei tempi in cui viviamo, ma, soprattutto, bisogna essere bergamaschi oppure essere in grado di comprendere la bergamaschità, come posso fare io che, campano, a Bergamo vivo da decenni.

Il contesto sociale. Il grande sociologo Zygmunt Bauman ha analizzato al meglio la dinamica, già due decenni fa, dell’individualismo che il neoliberismo ha fatto introiettare alle persone al punto da non essere nemmeno più percepito come tale ma semplicemente come una realtà: «Ciò che più di ogni altra cosa si impara dall’altrui compagnia è che l’unico servizio che essa può rendere è un consiglio su come sopravvivere nella propria irrimediabile solitudine, e che la vita di ognuno è irta di rischi che vanno affrontati e combattuti da soli».

Tutto ciò non può che recare sensi di colpa. «Questo è, a ogni modo, quanto viene loro detto è quanto viene loro indotto a credere, cosicché essi si comportano ora come se questo fosse davvero il nocciolo della questione». Molto acuta la conclusione del sociologo: «Rischi e contraddizioni continuano a essere prodotti a livello sociale; sono solo il dovere e la necessità di affrontarli a essere stati individualizzati». All’impotenza individuale determinata dal sistema, la reazione non è più rabbia sociale/collettiva ma un, paradossale e cinicamente indotto, senso di vergogna individuale.

La bergamaschità

Bergamaschità. Tutto ciò trova la sua iperbole in questa città in cui – per una visione calvinista del lavoro – si ritiene con certezza – e ben prima dell’avvento del neoliberismo e di ogni meno recente condizionamento sociale – che se i lavoratori «restano disoccupati è perché non hanno mai imparato come ottenere un colloquio di lavoro, o perché non si sono industriati abbastanza a trovare un impiego o perché sono dei puri e semplici scansafatiche». Tutto condensato nel miglior complimento per qualcuno – ad esempio, un padre al fidanzato della figlia – invariabilmente «è un gran lavoratore».

E l’espressione di peggior…

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