Anche i semi diventano open source

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I non addetti ai lavori probabilmente non lo sanno, ma la quasi totalità delle sementi comunemente utilizzate in agricoltura è protetta da uno o più brevetti. A detenerne i diritti è un manipolo di multinazionali della chimica come Monsanto (gruppo Bayer), Corteva (gruppo DuPont), ChemChina (gruppo Syngenta) che negli anni hanno messo a punto semi più resistenti alle malattie, con una produttività più elevata o in grado di prosperare anche in condizioni climatiche non proprio ideali. 

Queste sementi sono, da un certo punto di vista, equiparabili ai sistemi operativi dei computer e degli smartphone, controllati da 2 o 3 grandi aziende come Apple, Microsoft e Google. Quello dei semi è un business colossale che su scala globale vale più di 60 miliardi di dollari.

La maggior parte degli agricoltori dunque, non ha la proprietà dei semi che pianta, ma solo i diritti di utilizzo. In pratica è come se le sementi venissero noleggiate. 

Finanza agricola. Dal punto di vista pratico questa situazione crea più di qualche problema: i colossi dell’agricoltura sono aziende che hanno per obiettivo la massimizzazione del profitto più che temi sociali come la biodiversità, la lotta alla fame o la tutela dei piccoli agricoltori.

Per questo motivo a partire dal 2012 un team di esperti in bioingegneria e in agricoltura sostenibile ha creato l’OSSI – Open Source Seed Initiative, che ha come obiettivo quello di mettere a punto delle sementi alternative a quelle dei grandi gruppi, liberamente accessibili e di alta qualità. All’iniziativa hanno aderito oltre 50 produttori statunitensi di sementi, che si sono specializzati nella selezione di varietà vegetali in grado di prosperare nelle condizioni climatiche e ambientali specifiche delle varie zone del paese. Il loro lavoro viene tutelato legalmente dall’organizzazione, così da evitare inopportune appropriazioni da parte di soggetti privati.

Ma open source non significa “gratis”: i produttori di sementi vengono remunerati vendendo i loro semi agli agricoltori, che però in questo caso acquisiscono il diritto di utilizzare semi e derivati come meglio credono. Anche, eventualmente, di migliorarli con altre selezioni e altri incroci. Proprio come accade con il software open source.

Per fare il seme, ci vuole il frutto. Già… perché a differenza dei semi prodotti dai grandi gruppi industriali, che in molti casi danno vita a frutti sterili così da obbligare gli agricoltori a riacquistare le sementi ogni anno, i semi open source sono fertili.

Una parte del raccolto può quindi essere messa da parte e utilizzata per la semina dell’anno successivo, proprio come facevano i nostri nonni.

Le sementi open source sembrano insomma destinate a dare un contributo alla biodiversità e all’agricoltura sostenibile: ecco perché in tutti i continenti stanno nascendo diverse organizzazioni no-profit che hanno come obiettivo quello di sviluppare e diffondere semi non brevettati e di…

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