I coyote hanno imparato a cacciare (anche) l’uomo

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Ci sono delitti che richiedono anni, a volte decenni per essere risolti. Nel 2009, per esempio, in un parco nazionale canadese, un’escursionista di 19 anni venne aggredita e uccisa da un branco di coyote: si tratta del primo e finora unico caso documentato di un attacco letale a un essere umano da parte di questi canidi, che possono essere una minaccia per il bestiame ma solitamente si tengono alla larga da noi. Tredici anni dopo, grazie a uno studio pubblicato sul Journal of Applied Ecology, abbiamo una risposta: l’attacco fu una conseguenza del degradamento delle condizioni ambientali, e della necessità dei coyote di modificare la propria dieta.

 

Niente piante, solo alce. L’attacco alla 19enne Taylor Mitchell, cantante folk canadese autrice di un solo disco prima dell’incidente fatale, è avvenuto nel Parco Nazionale degli Altipiani di Cape Breton, in Nuova Scozia. E proprio da qui è partito lo studio della Ohio State University; il team ha selezionato 11 coyote locali e li ha dotati di collare GPS, per monitorarne i movimenti ma anche per avere accesso ai loro escrementi: lo scopo era capire di che cosa si nutrissero gli animali, e se la loro dieta fosse diversa da quella classica dei coyote – che è solitamente onnivora, ricca non solo di carne ma anche di piante. Nel corso di quattro anni di monitoraggi, il team ha scoperto che la dieta dei coyote di Cape Breton è composta per due terzi di carne di alce, e che le prede più piccole sono presenti in misura molto minore.

 

Di necessità virtù. Questa preferenza non è normale, perché gli alci sono animali di grosse dimensioni e molto difficili da cacciare per un branco di coyote: quelli di Cape Breton, secondo lo studio, lo fanno per necessità, in carenza o assenza dei loro cibi preferiti (cioè prede più piccole e meno rischiose). Il problema quindi non è legato alla specie ma al suo habitat: i coyote di Cape Breton si sono dovuti adattare alla situazione di degrado ambientale, e hanno dovuto espandere la loro dieta per includere prede più grosse – come i lupi della Mongolia costretti a cambiare dieta a causa della bassa biodiversità e che, in mancanza di prede selvatiche, si nutrono di quelle domestiche al pascolo.

Questo, secondo gli autori dello studio, significa sfortunatamente che hanno anche imparato ad andare a caccia di umani: il famigerato attacco del 2009 è una conseguenza del peggioramento delle condizioni ambientali, ed è quindi (neanche troppo indirettamente) colpa nostra. Secondo gli autori, comunque, anche in futuro attacchi di questo tipo rimarranno estremamente rari e legati a particolari condizioni locali; che sarà importante identificare in anticipo, così da mettere in guardia chi vive o visita un’area a rischio.



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