Sclerosi multipla: una “firma” precoce nel sangue

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Anticorpi ribelli presenti nel sangue di alcune persone con sclerosi multipla diversi anni prima dei sintomi iniziali potrebbero aiutare a sviluppare nuove tipologie di screening precoce. I risultati di uno studio californiano diffuso in pre-pubblicazione su medRxiv aprono la strada a possibili trattamenti tempestivi contro questa condizione – almeno per una porzione di pazienti.

Sclerosi multipla: diagnosi e sintomi. La sclerosi multipla è una malattia autoimmune caratterizzata dall’infiammazione del sistema nervoso centrale e dalla perdita di mielina, la guaina protettiva e isolante che riveste le fibre nervose. Al momento non esiste un test specifico per diagnosticare questa patologia e si procede più che altro osservando i sintomi (disturbi visivi e della sensibilità, perdita di forza muscolare).

Spesso la diagnosi richiede molti mesi, che ritardano i trattamenti farmacologici. Anche se non esistono ancora cure per la sclerosi multipla, frequenza e gravità dei sintomi possono essere ridotte grazie a farmaci specifici.

A caccia di segnali. Per evitare che i sintomi peggiorino è bene iniziare le cure il prima possibile, e gli autoanticorpi – anticorpi finiti “fuori controllo” che attaccano le cellule dell’organismo anziché dirigersi contro i patogeni – possono essere una spia precoce della malattia nel sangue. Ma a differenza di quanto scoperto per altre patologie autoimmuni, la sclerosi multipla non risultava finora associata alla presenza di autoanticorpi specifici.

Le analisi. Colin Zamecnik dell’Università della California a San Francisco ha analizzato campioni di sangue di 250 persone con sclerosi multipla, prima e dopo la comparsa dei sintomi.

I campioni sono stati presi dal Serum Repository del Dipartimento della Difesa statunitense, che conserva il sangue prelevato dai militari quando entrano in servizio o si sottopongono a controlli medici, e fotografavano in media la situazione cinque anni prima e un anno dopo rispetto alla comparsa dei sintomi. Gli scienziati li hanno confrontati con quelli prelevati da soggetti sani della stessa fascia di età, origine e genere.

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