«L’Iran va verso la fine dell’hijab obbligatorio. Raisi è lontano dalla sua

La giornalista iraniana-americana Azadeh Moaveni si trovava a Teheran in visita alla sua famiglia, quando sono scoppiate le proteste in seguito alla morte di Mahsa Amini, in un momento in cui non c’è quasi nessun reporter a raccontarle dal vivo per i giornali occidentali. Moaveni (premio Cutuli 2019) è rimasta colpita dal coraggio delle giovani che strappano le immagini del fondatore della Repubblica Islamica Ruhollah Khomeini, che si tagliano ciocche o si radono il capo come in «un sacrificio rituale in una cultura la cui poesia per secoli ha celebrato i capelli come metafora di antica bellezza e catene d’amore». Ne ha scritto sul
New York Times
e ne parla con il
Corriere.
La sua testimonianza è significativa anche perché la giornalista ha documentato la ribellione della precedente generazione di iraniane nel saggio del 2005
Lipstick Jihad
(La jihad del rossetto).

Quel che accade oggi «è la continuazione di un lungo processo», ci dice Moaveni da New York, dove insegna. «Ogni generazione costruisce sulle conquiste della precedente. In
Lipstick Jihad

raccontavo come le giovani iniziarono a contestare il potere che lo Stato si era arrogato, su base arbitraria, di decidere se l’aspetto di una donna è islamico oppure no. Negli Anni 2000, la mia generazione si opponeva indossando colori vivaci, soprabiti aderenti o sbottonati, truccandosi, interpretando le norme sulla modestia a proprio modo e spingendo i confini di ciò che di fatto diventava normale indossare». Ragazze come le sedicenni Nika Shakarami e Sarina Esmaeilzadeh, uccise nelle proteste, vanno oltre, sono «completamente senza paura, vediamo i loro video» in cui cantano e danzano senza velo. Ma «ci sono anche ragazze che in famiglia devono indossare il chador e poi nella loro camera girano filmati in cui ballano e li condividono sui social con le persone di cui si fidano. Succede ormai al di fuori dai gruppi sociali più progressisti e quindi anche famiglie più religiose perlopiù non accettano che una giovane per il proprio aspetto possa subire violenza».

Dopo il 2009, Moaveni non era più tornata in Iran, fino a due-tre anni fa e si è stupita nel vedere quant’erano cambiate le cose. «In così tanti luoghi pubblici le donne stavano senza hijab. La polizia della moralità non è mai scomparsa, ma negli ultimi 2-3 anni la sua presenza era diminuita». Il rafforzamento delle regole sull’hijab è avvenuto sotto il presidente Ebrahim Raisi: «Ed è segno di quanto sia ormai distante dalla gente il sistema, che è diventato più ristretto e omogeneo», osserva la giornalista. «Raisi forse pensava di rispondere alle aspettative dei suoi sostenitori ma io credo che nemmeno gli iraniani religiosi vogliano questo». Ieri il presidente si è fatto fotografare circondato dalle studentesse dell’Università Al-Zahra di Teheran, dopo un discorso in cui paragonava i «rivoltosi» a delle «mosche». Ma anche in questo ateneo era stato accolto con proteste:…