Il giornalista americano imprigionato in Libia mentre indagava sui centri per

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Il New Yorker ha pubblicato una lunga inchiesta del giornalista statunitense Ian Urbina, che ha raccontato di essere stato rapito e imprigionato in Libia mentre stava indagando sui campi di detenzione in cui vengono trattenuti i migranti che cercano di arrivare in Europa via mare.

I giornalisti occidentali che lavorano in Libia sono pochissimi, proprio per i rischi di torture e violenze come quelle subite da Urbina, il cui racconto è prezioso e rivelatore di quanto siano potenti e spregiudicati i gruppi armati che controllano la Libia.

Urbina stava indagando sulla storia di Aliou Candè, un migrante di 28 anni della Guinea-Bissau, morto lo scorso aprile ad Al Mabani, un centro di detenzione per migranti aperto in Libia a gennaio. Candè era stato imprigionato ad Al Mabani dopo che aveva cercato di arrivare in Europa insieme a un centinaio di altri migranti a bordo di un gommone.

Il gommone però era stato intercettato dalla cosiddetta Guardia costiera libica, e i migranti trasferiti ad Al Mabani. La Guardia costiera libica è un corpo armato molto controverso, a cui da diversi anni l’Unione Europea ha affidato il compito di impedire ai migranti che partono dalle coste della Libia di arrivare a quelle europee: spesso opera con violenza e, come sembra sia avvenuto nel caso del gommone su cui era Candè, al di fuori delle acque libiche.

Urbina era arrivato a Tripoli, in Libia, lo scorso maggio, e nei suoi primi giorni di soggiorno aveva intervistato decine di migranti per capire cosa fosse successo a Candè nel centro di Al Mabani. Il 23 maggio, mentre si trovava in albergo e stava parlando al telefono con sua moglie, alcuni uomini armati avevano fatto irruzione nella stanza, lo avevano incappucciato, gettato a terra e picchiato, rompendogli due costole.

La stessa sorte era accaduta ai membri della troupe con cui stava effettuando l’inchiesta, tra cui il fotografo libanese Pierre Kattar e la regista olandese Mea Dols de Jong. Tutti erano stati poi condotti in un luogo che secondo Urbina sarebbe una prigione segreta, non distante dall’ambasciata italiana a Tripoli. Lì erano stati interrogati per ore e Urbina era stato nuovamente picchiato. Uno dei carcerieri, che si erano identificati come membri del servizio di intelligence libico, aveva anche minacciato Mea Dols de Jong di violentarla sessualmente: «Lo vuoi un fidanzato libico?», le aveva sussurrato all’orecchio.

Urbina era stato poi messo in isolamento in una cella e interrogato nuovamente: «Sappiamo che lavori per la CIA. Qui in Libia lo spionaggio lo puniamo con la morte», gli aveva detto più volte un uomo, puntandogli anche una pistola alla testa. Urbina aveva provato a spiegare di essere un giornalista e di trovarsi in Libia per condurre un’inchiesta, ma i suoi carcerieri gli avevano risposto che era illegale intervistare i…

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