Minacciata dai talebani e dimenticata dall’Italia. Così abbiamo salvato Zhara

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Zhara Gol Popal l’avevamo lasciata, in lacrime, a Kabul nella morsa del nuovo emirato talebano. Il soldato Jane dell’Afghanistan, rappresentante di genere dell’esercito afghano ad Herat, che da anni collaborava con le truppe italiane era ricercata in tutto il paese. Il simbolo delle donne che non si piegano ai talebani si nascondeva con il marito, i fratelli, pure loro militari e due figli piccoli, Arsalan di 9 anni e la sorellina Aslehan nata lo scorso marzo. Velo giallo e mascherina anti Covid per non farsi riconoscere, aveva lanciato un disperato appello all’Italia: “Aiutatemi a fuggire in nome della nostra lunga collaborazione, altrimenti i talebani mi uccideranno”. Zhara è atterrata lunedì, con la famiglia, all’aeroporto di Malpensa per poi raggiungere Verona grazie a una gara di solidarietà che ha coinvolto noi giornalisti, politici, un’associazione cristiana e l’ambasciata italiana ad Islamabad. Non il governo, che promette corridoi umanitari inesistenti continuando a lasciare indietro almeno 250 interpreti e collaboratori tagliati fuori dalla drammatica evacuazione da Kabul.

Persone di buona volontà si sono sostituite ai doveri di uno Stato degno di questo nome aiutando a salvare fino ad oggi decine di afghani. E come ultima Zhara in una specie di piccola Schindler list al crocevia dell’Asia. Una storia che adesso possiamo raccontare con il soldato Jane dell’Afghanistan in salvo a Verona grazie all’ospitalità dell’amministrazione comunale.

Il 31 agosto Zhara ci contatta: “Ciao, sono la responsabile per la parità di genere di Herat, mio marito Sohrab è il capo ingegneri di camp Zafar (base dell’esercito afghano nda). Siamo fuggiti a Kabul. I talebani sono già andati a casa nostra e l’hanno bruciata. Salvate la mia famiglia. Siamo in pericolo”. La donna soldato ha dovuto aprirsi un varco per scappare da Herat: “I talebani ci avevano fermato ad un posto di blocco ed è scoppiata una sparatoria con i miei fratelli”.

Nella capitale afghana la incontriamo di nascosto, ma non basta un’intervista per salvarle la pelle. Difesa, Esteri e Interni hanno le liste pronte di chi è rimasto indietro, ma a differenza di altri Paesi non evacuiamo nessuno. Per farla arrivare in Pakistan, unica via di fuga, garantiamo noi con l’ambasciata italiana ad Islamabad, che convince le autorità a farle passare la frontiera. “Siamo in Pakistan, ma ci sentiremo al sicuro solo in Italia” è il messaggio del 27 settembre. L’ambasciata ci spiega che per ottenere un visto ha bisogno dell’invito di una Ong in Italia che si sobbarchi l’accoglienza, nonostante il ministro Luigi Di Maio si vanti di illusori “corridoi umanitari”. Grandi organizzazioni non governative, brave a parole, si defilano, ma la Fondazione L’Ancora di Verona apre le braccia. “Fede e umanità. Abbiamo già accolto una famiglia siriana in fuga dalla guerra. Siamo felici di contribuire a salvare la vita di una donna afghana con il marito ed i figli” spiega il fondatore, don Renzo Zocca, prete di strada che non si perde nei distinguo quando si tratta di vita o morte.