«Ho un tumore inguaribile legato all’amianto, mi resta poco da vivere. La cosa

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«Ero seduto davanti alla sua scrivania. “Houston, abbiamo un problema”, mi disse il professore. “Francesco, non so come dirtelo. In questo momento vorrei tanto essere l’animatore di un villaggio e non un dottore. Hai un mesotelioma. Aggressivo”. “Quanto?” “Alto grado”».

Ha capito subito.
«Sapevo bene cos’era. Mi sono piegato in avanti, muto, con le mani sulla testa. E il prof si è incazzato. “Ehi! E che è adesso? Si reagisce, si combatte, vedrai che ce la facciamo”». Franco Di Mare, 68 anni, ex inviato di guerra e conduttore tv, deve dosare il respiro, quando parla. «Ho un tumore che non lascia scampo. Mi resta poco da vivere, quanto non lo so. Però non mollo. Confido nella ricerca». Accanto a lui c’è una grossa bombola con le rotelle, che lo segue ovunque vada. Nel naso ha un tubicino trasparente. «È un diffusore di ossigeno, è lui ora il mio polmone. Prima mi aiutava soltanto di notte. Da una decina di giorni invece non posso più staccarmi. Sono legato come gli astronauti. A guardarlo bene assomiglia a R2-D2, il robottino di Guerre Stellari». Il cagnetto Lili gli saltella intorno.

Lo chiama per nome, il suo nemico.
«Quando ero piccolo, in famiglia si abbassava la voce: “Quella persona ha un brutto male”. Come se, nominandolo, il mostro ti entrasse in casa. Io invece sono diretto. Ho un cancro. Oggi ci si cura e spesso si guarisce. Da questo no. Non se ne va, al massimo lo puoi rallentare, ma resta lì ed è uno dei più cattivi».

«Perché a me?». Lei ha trovato la risposta.
«Perché sono stato a lungo nei Balcani, tra proiettili all’uranio impoverito, iper-veloci, iper-distruttivi, capaci di buttare giù un edificio. Ogni esplosione liberava nell’aria infinite particelle di amianto. Ne bastava una. Seimila volte più leggera di un capello. Magari l’ho incontrata proprio a Sarajevo, nel luglio del 1992, la mia prima missione. O all’ultima, nel 2000, chissà. Non potevo saperlo, ma avevo respirato la morte. Il periodo di incubazione può durare anche 30 anni. Eccoci».

Ci ha scritto un libro che esce domani: «Le parole per dirlo» (Sem, Feltrinelli).
«Per raccontare le guerre fuori da me e quella dentro di me. Un piccolo dizionario esistenziale. Senza pietismo. È il mio testamento».

Un pomeriggio qualunque di tre anni fa.
«Ero seduto qui su questo divano, guardavo un programma scemo in tv. Una fitta terribile mi è esplosa tra le scapole, una coltellata. Credevo fosse un dolore intercostale. Invece era il collasso della pleura, uno pneumotorace. Pensai: non è niente, passerà. Ho cambiato posizione, mi sembrava di sentirla meno. Ci ho dormito su, però respiravo male. Credevo di avere il Covid, ma i test risultavano negativi. Dopo 20 giorni così,…

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